La distopia del complottismo e l’illusione dell’informazione (in realtà è solo un’invettiva furiosa)

Mi sto ritrovando da qualche tempo a questa parte nella spiacevole situazione di avere un intorno relazionale di complottisti. In particolar modo facente parte dei due macro-gruppi: i complottisti di pancia (coloro che non conoscono, non sanno, non sono istruiti e né hanno lo spazio per recepire a posteriori certe conoscenze basilari. Ah sì, generalmente con la memoria corta, anche); i complottisti che pensano di sapere (i più temibili. Costoro riescono a rielaborare e ripresentare le notizie fasulle per reinserirle in circolo, diverse, più o meno accattivanti. Sono i veri nodi responsabili della macchia d’olio).

Quanto ha senso tentare di lottare per qualcosa di tangibile che però continua a sembrare un enorme, inutile, vecchio, reiterato, mulino a vento?

Ho sempre desiderato poter contribuire a mio modo all’equilibrio dell’universo, al bene di questo mondo, a quel poco che vedo e che ne rimane, ma sembra umanamente impossibile. Di base, a quanto pare, non è possibile gioire di una conquista perché tanto ormai si sa, l’inculata è dietro l’angolo e quindi questo tanto basta per diffidare da qualsiasi cosa, anche della propria ombra.

Lungi da me volere che questo diventi un trattato psicologico, non ne ho le competenze, né credo sarebbe esaustivo (sono al momento vittima io stessa di una discreta quantità di bias emotivi derivanti da una collera parecchio spietata nei confronti di determinate “notiziole”) ma la stanchezza che provo penso abbia bisogno di uno sfiatatoio o finisce per debilitarmi.

La questione trigger in questo caso è stata nei confronti del vaccino contro il SARS – CoV – 2, il quale, a quanto pare, da leak incredibili di tweet ormai rimossi, porterà alla scrematura dei vaccinati vs i non vaccinati e che questi ultimi, secondo dei notissimi economisti facenti parte di una cerchia di pochi eletti stile Club Bildenberg, saranno privati di scorte di cibo (o qualcosa del genere?? Vorrei davvero lasciare un link, una fonte, un riferimento ma non ce ne sono di considerabili attendibili. A meno che non consideriate attendibile uno screenshot con una didascalia in Comic Sans). Momenti come questo mi portano onestissimamente a credere che non è possibile un tale rimbecillimento.

Partiamo da una cosa: chiunque può scrivere un libro. Su qualsiasi cosa. Anche vostro cugino. Che magari è bravissimo eh, nello scrivere, un lessico impeccabile, parole altolocate (che cerchi nel dizionario e vedi che esistono, mannaggia, deve essere proprio vero!) ma nella vita fa il carpentiere e di macroeconomia non sa nulla. Lo assumereste come commercialista?

Prima obiezione: il curriculum di certi omuncoli autori di libri che paiono trattare esattamente ciò che hanno studiato per tutta la vita, in contesti storici loro, con percorsi di studi ricchi, sono forniti, densi di riferimenti che sì, magari sono anche attendibili, seguono le linee guida del pensiero critico e sono scientificamente affidabili (big news: il metodo scientifico è applicabile a qualsiasi ambito, anche quello umanistico/politico) e quindi perché non dovrei credere a ciò che scrivono?

Ma perché dovresti, mi domando io? Prima del nobilissimo senso civico e bisogno di salvare il mondo, ci sono mille motivi per il quale una persona potrebbe mettersi a scrivere un trattato gridando allo scandalo e, onestamente, sono anche ben maggiori dei motivi che lo porterebbero a denunciare, posto che ciò che dice sia vero, una determinata ingiustizia/situazione/previsione. Senza contare che i canali tramite il quale farlo non sono di certo questi, non sono lo scrivere 300 pagine buttando qui e lì nozioni sensazionalistiche sussurrando all’orecchio del lettore di guardarsi le spalle perché c’è Big Brother dietro (parecchio stupido tra l’altro, se permette la divulgazione di determinate notizie e le lascia fruibili ai suoi sudditi così chiaramente, così bene, così alla leggera). Quale dovrebbe essere la discriminante tale per cui la parola di uno sconosciuto che però ha una pagina wikipedia dovrebbe venire prima della realtà che ti sta attorno? E soprattutto, a quale pro pensare che il vicino di casa stia escogitando di fregarti e uno che non sai manco che volume d’aria occupa nel mondo sicuramente è il buono della favola?

Da quando esattamente va di moda fare la guerra a ciò che è giusto per il macro, pur di difendere il proprio giardino? A che pro alzare torce e forconi verso il cambiamento che ci spaventa, che non conosciamo, prima ancora di analizzare veramente ciò che abbiamo davanti e ci è proposto?

E soprattutto: perché quando faccio notare questa cosa vengo categorizzata per l’inguaribile ottimista di turno che non si accorge di vivere in un mondo dove le cose non vanno?

Molte cose non vanno. Quindi è chiaro, dovrei distendermi a letto, dopo aver fatturato il mio quotidiano e incazzarmi su internet contro qualsiasi cosa mi imponga qualcosa fuori dalla mia comfort zone e, soprattutto, fare l’ultras con il primo stronzo che su internet molla una frase o un pensiero che lasciano la mia testa divagare nel catastrofismo. Un esempio? “Hanno messo i lacci nelle scarpe, pensate ora quale sarà il prossimo passo, mettere ovunque i lacci alle scarpe, chi vorrà usare i mocassini non ne troverà più, ne verrà privato, verrà visto come un alieno”. Quanto sembra assurda questa illazione? Ora, per cortesia, modificate, in questo specifico caso, i lacci con vaccino, i mocassini con i non vaccinati e il senso di catalogazione dei “portatori senza lacci” con quello che sta avanzando ora nel mondo riguardo il patentino della vaccinazione. Non c’è una conclusione, non c’è un’argomentazione, non c’è sostegno ad una tesi (c’è una tesi?) però questo tanto basta perché questa informazione, lanciata nel mondo cruda e grezza com’è, instilli in me un dubbio che poi si farà cancerogeno perché io mica mi faccio fregare, sono più furbo, eh no!

Se vieni lasciato libero di fare il cazzo che ti pare comunque preferisci seguire quel che dice trottolina_86, la quale su Facebook guarnisce di una cornicetta e di abusatissimi puntini di sospensione il suo modesto pensiero secondo il quale il vaccino fa schifo e ti fa venire la febbre e quindi no eh.

Ma allora.

Allora.

Se c’è una guida non la volete perché vi prende per il culo. Il prossimo vi prende per il culo. Se non c’è una guida non siete in grado di autogestirvi perché non capite che per proteggere voi e i vostri cari dovete pensare al gruppo e non al singolo. Vi lamentate se si dice “immunità di gregge” solo perché fondamentalmente dovete riversare l’infelicità della vostra esistenza e l’insoddisfazione personale in qualcosa oltre la vostra sfera intima, gettando contributi caotici al mondo e disinteressandovi delle conseguenze.

Vi chiedo.

Non vi rendete conto che vi state prendendo per il culo da soli?

Momenti di forze: in sintesi

Tra le bozze ho buttato giù un articolo riguardo alle forze, ai principi della dinamica e a come questi siano potenzialmente applicabili alle grandi esperienze della nostra vita, specie quelle emozionali.

Voleva essere un blog di divulgazione e di scienza, ma di terreni sulla quale coltivare ce ne sono di tanti tipi e non mi va di rinnegare nessuno di questi. Per cui questo non è un articolo, questa è una sintesi in tre principi (come la dinamica) su quell’amalgama oscuro che ancora giace tra gli articoli salvati.

  1. Se la somma delle forze agenti su un corpo è uguale a zero, questo si ritroverà a mantenere il suo stato o di quiete o di moto rettilineo uniforme;
  2. Non è possibile riconoscere in modo univoco quando si è in quiete e quando si è in moto rettilineo uniforme, ma certo è che se un vettore forza perturba il mio equilibrio io, entità subente, troverò sempre il metodo più maldestramente irrazionale per ripristinare una nuova stasi (o un nuovo movimento);
  3. I vettori forza che agiscono sull’individuo subiscono pesanti ridimensionamenti se nell’equazione si aggiunge un t generico misurato in secondi, come da SI (Sistema Internazionale), e a questa variabile risultano dipendenti.

3bis. Non so scrivere articoli scientifici.

Mi piacciono i cambiamenti.

(Ah sì, nell’articolo originale ad un certo momento x ho anche inserito un link ad un sito molto scientifico e molto attendibile su quanto l’equazione di Dirac sia stata seviziata dal mondo romantico dell’internet. Ve la lascio qui lo stesso perché penso sia interessante, per i più appassionati https://www.thedifferentgroup.com/2017/02/01/dirac-equazione-amore/)

Sei vivo quando doni gli organi (ed altre simpatiche amenità)

C’è gran poco da spiegare riguardo al motivo per il quale sto scrivendo questo articolo (pensiero? Sfogo? Sproloquio? Ormai questo blog si sta prostituendo ai miei nervi). Ma farò un ripassino ugualmente.

Qualche giorno fa – 14 maggio 2019 per la precisione – molte testate giornalistiche italiane riportano la storia di Lorenzo Mori, 17enne risvegliatosi da un coma lungo 5 mesi a seguito di un brutto incidente in motorino. La cosa, però, che pare fare più scalpore è la manifesta volontà della famiglia a voler donare gli organi del giovane.

Ho avuto l’ardore di googlare le parole incriminate (“17enne coma”) e di godermi – per modo di dire – il climax dei titoli che mi si sono presentati davanti.

“Verona, 17enne in coma profondo: si sveglia prima dell’espianto” (Tgcom24 – mediaset)

“Verona, staccano la spina al 17enne in coma, poi il miracolo” (Viagginews – ???)

“17enne in coma si risveglia prima dell’espianto degli organi” (cronacasocial.com)

Attenzione, lo spannung è tutto qui:

Era tutto pronto per l’espianto degli organi.” (sottotitolo all’articolo dedicato de ilgiornale.it)

Sì, insomma, penso di aver reso l’idea. Il denominatore comune qui pare essere l’idea di vedere questo ragazzo sotto ai ferri che apre gli occhi stile film horror tendente allo splatter. Non ho proprio intenzione di tentare di sviscerare i motivi per cui le persone in genere tendono a credere al paranormale all’incontro di una cosa che non conoscono; o meglio, non saprei nemmeno da dove iniziare vista l’assurdità di contestare proprio l’ambito scientifico, grazie al quale banalmente gli stessi individui hanno accesso a queste notizie.

Mi attengo a ciò che posso dare, sperando di essere almeno la metà chiara di quanto è stata Esplorando il Corpo Umano con gran parte dei miei coetanei.

Il coma

In generale, senza essere troppo dettagliati, lo stato comatoso è caratterizzato da incoscienza profonda, assenza di risposta a stimoli tattili e sensoriali e inevitabile alterazione del ciclo sonno – veglia. Il vero discriminante dello stato comatoso è l’irreversibilità dello stesso con mezzi “artificiali” a noi ora conosciuti: di fatto, a seguito di un danno cerebrale piuttosto importante, l’entrata in coma non è alterabile da farmaci, operazioni o qualsivoglia azioni cliniche (e non) atte alla cura dello stesso malessere. L’unica cosa che rimane da fare è stabilizzare, monitorare, attendere. Cosa? L’evolversi “naturale” dello stato patologico che può portare o alla caduta in uno stato vegetativo o a quello di minima coscienza. L’andamento e l’evoluzione dello stato comatoso di un paziente sono estremamente variabili, ancora in fase di perpetuo e sofferto studio.

(Da ben distinguere lo stato di coma farmacologico ossia l’incoscienza indotta clinicamente con dosi controllate di potenti antidolorifici e/o anestetici per, generalmente, favorire il recupero da situazioni traumatiche, proteggere l’encefalo da una carenza di ossigeno e per ridurre drasticamente la sensibilità al dolore durante operazioni delicate. Conoscere per servirsene: ringraziate un anestesista la prossima volta che va bene un intervento, non un miracolo divino.)

La morte

Non è quando il cuore smette di battere. Pare una scemenza ma può essere che a tutti non sia chiaro: un cuore pulsante non è in modo esclusivo sinonimo di vita, così come l’opposto non è sinonimo di cessazione della stessa. La morte clinica – reale – è solo quella cerebrale.

Per chi non ci avesse mai fatto caso, il nostro corpo funziona con un sistema gerarchico: il cerebro (cervello, testa, capo) ha il supremo compito di impartire gli ordini. Gli organi, i tessuti, le cellule, di eseguirli. Il tutto ai fini di mantenere lo stato di benessere in omeostasi il più possibile imperturbabile (non ridete dall’alto della vostra influenza a maggio, io la sto facendo semplice, su) o, quanto meno, volto all’equilibrio in positivo (ecco, mi sono parata il fondoschiena). E su questo genere di impostazione sostanzialmente si basa anche la nostra società. Un buon datore di lavoro, però, oltre a pretendere una buona resa da ognuno, ne deve garantire anche la sopravvivenza. 

Qui entra in gioco il muscolo cardiaco. Il sangue è il pasto cellulare per eccellenza, in primis per l’apporto di ossigeno, su cui si basa la nostra esistenza biologica. Per tutelare questo diritto basilare senza cui niente di questa macchina perfetta funzionerebbe, il tessuto cardiaco è speciale: viaggia un po’ con il pilota automatico. I cavalli per sfrecciare ce li ha: sono la componente striata. L’AI, invece, è data da quello liscio, autonomo: l’impulso di contrazione, cioè, avviene in modo indipendente dal tizio che sta là appollaiato in cima, il quale può modularne solo le frequenze. Il cuore, insomma, è il macchinario di punta dell’azienda: finché c’è sangue ossigenato e ricco, lui, imperturbabile, lo distribuisce in modo ponderato, efficacie, preciso. Ed è sempre dal capo che arriva l’ordine di quanto ne serve al momento. Quando la produzione cala, insomma, la prima battuta del sommo è l’aumento della frequenza cardiaca, il bisogno di un pasto, di bere.

L’apporto di sangue garantisce la vita dei dipendenti (organi e tessuti) mentre l’impulso nervoso (il capo) ne garantisce il funzionamento.

Senza sangue, l’organo muore e se muore, non funzionerà mai più.

Tutto questo per dire cosa?

L’espianto degli organi si fa solo a morte cerebrale certa. Quando c’è quella non esiste riparo, non esiste via d’uscita, è tutto finito, niente reversibilità, niente attese, niente di niente (no, non parlatemi di anima). Vengono a mancare direttive, percorsi, vie e va tutto in confusione, ad eccezione del nostro macchinario. Lui finché c’è sangue vivo prosegue. Poi, sommessamente, si adegua alla progressiva mancanza di juice fino allo spegnimento automatico.

Il coma non è assenza di attività cerebrale. Qui – nei paesi considerati civilizzati e nella legalità – non esiste nessun medico che strapperà i vostri organi per donarli ad un altro finché siete ancora in vita. Dal punto di vista scientifico non è nemmeno uno scambio vantaggioso: una vita per una vita, inserendo variabili – l’esecuzione stessa dell’operazione – che portano con loro una certa quantità di rischio, è di fatto uno spreco di energia e risorse. Un uomo morto, è e rimarrà un uomo morto. Un uomo con il capo funzionante ma un fegato che fa cilecca, preferirà accogliere questo rischio con la possibilità di evitare il blackout.

Nel caso di prelievo, gli organi interessati devono essere mantenuti in salute per poter essere funzionali al ricevente. È un po’ come estrarre delle persone dalle macerie di un brutto crollo: se queste sono in difficoltà, va prima assicurata la loro sopravvivenza per tutta la durata dell’estrazione, altrimenti quest’ultima risulta inutile. Indi per cui viene ridata un po’ di linfa ad ogni “pezzo” interessato, per permettergli un’uscita – e una nuova vita – agevole. Questo non conferisce nuovamente alcun tipo di vitalità – intesa come la intende un ignorante in materia – all’organo o al donatore.

Nel caso della famiglia Mori la probabilità della morte di un giovane figlio (fratello, nipote, amico) non è una cosa su cui rifletti tutti i giorni. L’intenzione di voler donare gli organi di Lorenzo è un atto che va pensato e valutato, che può salvare delle vite. Ma che non implica il sacrificio di un donatore. Per farla breve: la firma che apponete (o no, ma io spero di sì) alla vostra volontà di donare gli organi al momento del passaggio alla carta d’identità elettronica (CIE), non vi piazza automaticamente su un letto di ospedale imbottiti di morfina e con le viscere aperte. O sbaglio?

Lorenzo in coma non è Lorenzo morto. Firmare i documenti per dare istruzioni su come agire tempestivamente al recupero degli organi minimizzando i danni agli stessi, non è come programmare la rimozione dell’appendice. Devi essere morto.

Strumentalizzare, deviare, manipolare un argomento così importante è in primo luogo offensivo: per la nostra evoluzione in quanto esseri pensanti, dico. Credere alle stesse è pericoloso. Se non per gli altri in primis per sé stessi: negare un aiuto simile al prossimo nega anche quelli in potenza verso di te. Ed essere arrivati così in là per finire a mordersi la coda è svilente (specie tramite i social ndr).

Sì, insomma, la stiamo già facendo fuori dal vaso con il pianeta, abbiamo davvero bisogno di questa forma di masochismo?

 

 

I dibattiti e gli spunti - così come le correzioni grammaticali, ahimè - sono sempre ben accetti.

 

Ma queste sigarette elettroniche?

No, non sono innocue.

Sì, i composti derivati sono dannosi tanto quanto quelli di una sigaretta normale.

Ma forse è meglio procedere con ordine prima che un’orda di fumatori – o ex fumatori – mi travolga di proteste. Sì perché quello che mi piace della scienza è che è in grado di spiegare con disarmante freddezza quanto anche le cose a cui siamo più dipendenti possano in realtà risultare una bella fregatura, e questo a molti non piace.

Prendiamo in esame il fumo di sigaretta: quella classica, normale, sulla cui confezione spesso ci piazzano foto orrende nel tentativo probabilmente vano (se non controproducente) di sensibilizzare il fumatore stesso sul rischio che corre. Ma la conoscete, banalmente, la composizione del fumo di sigaretta? Ciò che svolazza pacifico dai vostri nasi e dalle vostre bocche è chimicamente considerato un aerosol: un complesso costituito da una fase di vapore e una particolata in cui i costituenti si distribuiscono. Questi nel dettaglio sono rappresentati da: nicotina, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), nitrosammine tabacco specifiche (NTS) i quali si distribuiscono più piacevolmente nella fase particolata del fumo; idrocarburi leggeri – quindi piuttosto volatili – quali benzene, butadiene e toluene nella fase invece di vapore; acido cianidrico e ammoniaca in entrambe le fasi.

Non vi tedio né sulla tossicità di ciascuna di queste molecole – anche perché ora sapendo il loro nome è immediato, se uno è curioso, cercare su internet cosa comportano – né sulla pericolosità della dipendenza da nicotina. Un po’ perché non sono nella posizione di farlo e un po’ perché penso che le sigarette si consumerebbero ugualmente.

Non a caso la comunità scientifica e lo stesso Stato italiano hanno fatto molto per tentare di placare questa “piaga”, se così si può chiamare (specie tra i giovani) con risultati piuttosto deludenti. E io imparo dagli errori che sono stati fatti; mi piace parlare solo per chi ha orecchie che ascoltano.

Venendo al dunque, possiamo considerare l’introduzione delle E -Cig (sigarette elettroniche) proprio come un tentativo di diminuire la dipendenza da nicotina e per arginare la sempre aumentata incidenza di cancro al polmone, al sistema cardiovascolare e di sterilità nella popolazione fumatrice ma, per quanto l’idea possa essere stata buona, l’invenzione è passata a tutti come “Hey, vuoi fumare senza prendere il cancro? Vuoi fare dei bellissimi giochi di fumo con la bocca immergendo il pubblico in un delizioso aroma di fragola? Ecco il prodotto che fa per te!”. Non serve che vi dica che non c’è niente di più sbagliato.

“Eh ma guarda che è come respirare vapore acqueo mica fa male”

Allora, no. Il vapore acqueo è presente in quantità variabile anche nell’aria che respiriamo e non so se vi è mai capitato in alta montagna di trovarvi in mezzo ad una nuvola: è ben diverso in quanto a viscosità e si comporta oltretutto in modo nettamente differente. E non è un caso: l’obiettivo era quello di ridurre via via le dosi di nicotina ai soggetti dipendenti lasciando comunque loro il piacere dell’atto, il valore sociale che ha acquisito nel corso del tempo, il benessere della “pausa sigaretta”. Poteva sembrare geniale, ma come poter simulare il fumo di una sigaretta vera?

Tra i composti organici che la natura ci ha offerto, ci sono tornati utili la glicerina e il glicole propilenico. Per non parlare arabo: la glicerina è un alcolo costituente base – quando esterificato – dei lipidi (la nostra pancetta e i nostri fianchi ricchi di adipe) e dei fosfolipidi (membrane cellulari). A temperatura ambiente è un liquido viscoso e dolciastro e viene usata spesso come additivo farmaceutico (gocce auricolari, preparazioni uso esterno) o nei fumi da palcoscenico – ricorda qualcosa?

Il glicole propilenico è anch’esso un alcolo ampiamente usato in industria ed è il costituente principale, per capirci, del liquido antigelo per l’auto.

Nessuno dei due composti crea danni particolari se ingerito in quantità controllate. È quando la sigaretta elettronica li manda in areosol che le cose non sono più tanto sicure. Come? Nella sigaretta elettronica è presente una resistenza, la quale scalda un conduttore, il quale riscalda a sua volta la miscela fino a farla evaporare. Tutto bellissimo: la quantità desiderata di nicotina viene veicolata insieme agli aromi senza rinunciare ad una gradevole corposità.

La chimica organica frena gli entusiasmi con poco. Prendiamo ad esempio il glicole propilenico: se sottoposto ad una certa quantità di energia (= calore della resistenza) questo decade piuttosto velocemente in metil gliossale, e se la cosa si fermasse qui sarebbe anche tutto okay. In toto dal solo glicole propilenico avremmo propanale, 2 – propenolo e metilgliossale, nessuno di questi nocivi per l’uomo. L’uso prolungato però (che frega sempre un po’ tutti) aumenta il carico di energia sul metilgliossale che, guarda un po’, si trasforma in acetaldeide e formaldeide. Forse ora questi nomi vi dicono qualcosa. Ma c’è di più: questi si ritrovano anche nel fumo di sigaretta. Sono tra quei composti che vi ho citato all’inizio che forse sembravano un po’ messi lì a casaccio ma che ora tornano utili per capire qual è la reale pericolosità anche delle sigarette elettroniche.

Anche la glicerina fa la sua parte: a lei vengono attribuite le proprietà viscose e in certo qual modo piacevoli del fumo simulato dalla sigaretta elettronica. Ma ahimè non è esente da trasformazioni conseguenti all’esposizione al calore. In presenza di energia, infatti, perde volentieri una o due molecole d’acqua (si disidrata) formando nel primo caso glicidolo, nel secondo caso acroleina.

Anch’essi a far compagnia ad acetaldeide e formaldeide tra i composti chimici in comune con il fumo e con cui condividono anche le relative tossicità, tra cui: il rischio cancerogenico, l’effetto irritante sulla mucosa e i problemi cardiovascolari ad essi connessi.

In conclusione: sì, io penso e ritengo che le sigarette elettroniche rappresentino un buon passo avanti per aiutare le persone a smettere di fumare. La sottrazione graduale di nicotina aiuta ad evitare l’intero quadro clinico da crisi di astinenza e ad uscire da un circolo che si pensa essere più vizioso di quello di cocaina ed eroina stesse.

No, non ha alcun senso vengano fumate per il piacere di essere fumate. Non ha altrettanto senso che rappresentino addirittura il primo approccio al fumo per molti (alcuni ancora adolescenti) solo perché ingannati dalla presunta salubrità della cosa. Come se fosse divertente, come se fosse un giocattolo, come se servisse solo a rendersi belli davanti agli altri.

Ne vale la pena se questo è a discapito della propria salute e quella dei cari che ci stanno vicino?

In preparazione 2.0: a distanza di un anno.

Il fatto è che quando inizi una cosa nuova spesso lo fai d’impulso e, presa dall’emozione, ti improvvisi divulgatrice senza alcuna esperienza di rilievo. Né come scienziata, né come scrittrice.

E devo dire che i fatti lo hanno dimostrato bene: prima di scrivere l’ultimo articolo qui sotto è passato un anno e lì ferme ci sono ancora le mie bozze dove tentavo di spiegare cosa sono i terpeni. Ebbene forse non sono ancora pronta a tutto ciò – per quanto mi piacerebbe – per cui il blog è stato promosso a Terreni di Cultura 2.0. L’evoluzione è nei contenuti: più personali, più attuali, più sulle mie corde e più che altro per esercitare la mia scrittura portando comunque qualcosa di – penso – utile a questo mondo.

Almeno un po’.

Buona lettura.

Omeopatia: perché?

Faccio una premessa: non è un articolo a scopo prettamente divulgativo. Diciamo che nasce più che altro da esigenze personali.

C’è questo brutto vizio, nelle persone di questo mondo, a catalogare le cose in bianco o in nero. O è questo o è quello. O si fa o non si fa. O funziona o non funziona. Potremmo dire che anche un po’ nella scienza – specie nella sperimentazione – è così, ma poche volte ci si rende conto che la classificazione delle cose, delle scoperte, dei farmaci, dei postulati non è che la fine di un percorso dove l’elasticità mentale è importantissima e necessaria. Ergo, prima di poter affermare che qualcosa è bianco o è nero non basta esaminare la scala di grigi ma l’intero spettro luminoso dei colori sia visibili che non visibili.

Ma veniamo al dunque: il mio corso di laurea è prettamente direzionato verso la conoscenza e l’utilizzo delle piante officinali, che siano esse per automedicazione (con poche, se non nulle, precauzioni da attuare), fino a farmaci che tutt’oggi rimangono imbattuti in campo medico (chemioterapici principalmente). Ma è nella prima categoria di cure che le cose sono gran poco chiare: la fitoterapia è una scienza riconosciuta – e non a caso. Rientra infatti nelle discipline mediche cosiddette Evidence Based, ossia quel tipo di medicina, tutt’ora utilizzata per curare i malati che si rivolgono ad un medico o ad un ospedale, che si basa sul fornire terapie che prima di poter essere messe in atto su pazienti in vivo hanno attraversato trial clinici estremamente complessi, rigidi e lunghi (per alcuni anche più di 15 anni di sperimentazione) e che hanno saputo dimostrare efficacia sotto le strette regole della statistica – che viva dio governa il nostro mondo indiscussa ed è alla base del benessere di cui molti di noi godono.

Ecco, l’omeopatia no. Per l’omeopatia non c’è alcuno studio soddisfacente dal punto di vista statistico – ma nemmeno medico. Rientra, infatti nelle medicine cosiddette alternative ossia quei farmaci che nell’ideale comune al posto che prendere in farmacia trovi in erboristeria. Niente di più scorretto. Le piante officinali necessitano di conoscenze piuttosto importanti prima di poter essere somministrate e –  come tutti i farmaci – posso avere i loro pro ma anche i loro contro.

E allora che cos’è quest’omeopatia? La zia del cugino di un mio amico dice che ci sono le piante dentro e che fa bene.

Vi racconto innanzitutto in sintesi com’è nata. Un certo Samuel Hahnemann – medico tedesco del primo Ottocento – ha fatto una scoperta piuttosto sensazionale per le sue conoscenze: traducendo dei testi a lui antecedenti riguardo l’uso della china (Cinchona officinaliscome terapia contro la malaria si è reso conto che in realtà è una pianta piuttosto tossica. Ma c’è di più: la tossicità che si manifesta da ingestioni eccessive di chinidina e chinina – i due alcaloidi responsabili del maggior effetto del rimedio – ha una sintomatologia molto simile a quella della malattia che la pianta stessa dovrebbe curare. Ed ecco dove è il link: secondo Hahnemann dunque per curare una malattia va dato un veleno che nell’uomo manifesta un quadro clinico simile se non uguale al corrispettivo della patologia da trattare.

Quindi nell’Ottocento si ammazzavano i pazienti con i veleni per curarli da patologie che davano una sintomatologia simile?

No. Hahnemann per nostra fortuna poteva pur essere un ricercatore quasi eccessivamente entusiasta, ma non era pazzo. Le formulazioni preparate con queste piante normalmente tossiche dovevano infatti avere diluizioni altissime; in questo modo si annullava l’effetto tossico e rimaneva quello terapeutico. E si parla di diluizioni – ad oggi attuate – fino a 200CK o anche 300CK. (Basti pensare che per avere una diluzione 1CK si parte dal principio attivo scelto e lo si diluisce al 99% acqua. Poi si scarta tutto, pensando che un 1% della soluzione precedente sia rimasta in qualche modo nel contenitore. Si diluisce al 99% nuovamente. E così via.)

Ebbene com’è possibile che nessuno in duecento anni si sia accorto che forse queste preparazioni non davano beneficio clinico reale e che quindi erano ormai diventate obsolete?

Perché non lo sono. Esiste una cosa ancor più forte della statistica, delle evidenze e della scienza come è conosciuta ora: le credenze popolari. E uno può tranquillamente pensare che siano una bella fregatura del 21esimo secolo, queste baggianate da medioevo. Un altro invece potrebbe pensare che siano la vera avanguardia per un benessere duraturo ed effettivo della specie umana. Nessuno di questi due punti di vista si è sprecato ad analizzare le sfumature in mezzo – e ce ne sono moltissime. Escludendo i pazzi che curano un ematoma del figlio con il cortisone ed escludendo altresì i deviati mentali che pensano di sconfiggere un tumore con le pastiglie di Oscillococcinum ( = zucchero, ma venduto circa a 1000€/kg), l’omeopatia può avere un’utilità: per i pazienti che ci credono.

Non è una cosa da sottovalutare questa, la fiducia che ha il paziente nella terapia. Non siamo più nel Medioevo, per l’appunto, quindi evitiamo di escludere scienze quali la psicologia dal trattamento di una malattia. Non è un caso se parte di quei durissimi trial clinici a cui accennavo prima comprendono anche il test in doppio cieco. Vale a dire che il farmaco ottenuto – che può essere potentissimo – deve vedersela con una pastiglia placebo. Un gruppo di persone significativamente grande dovrà prendere quest’ultimo mentre un gruppo diverso dovrà prendere il farmaco. Ma nessuno di loro – tantomeno i medici che glielo somministrano – potrà sapere qual è uno o qual è l’altro. Quindi vi invito a considerare che effetto può avere l’aspettativa del paziente sulla riuscita o meno di una terapia. Si parla in molti casi di fare la differenza tra vivere o morire e la chimica non c’entra niente.

Tutto questo per dire cosa?

Che il mondo non è né bianco né nero. Ma neanche grigio. È così estremamente variegato che, mannaggia, se si deve curare un cancro ad un paziente che crede molto ai benefici dell’omeopatia allora è inutile adirarsi tanto e/o pensare che sia stupido. Se non prende la sua pastiglia di zucchero dopo o prima del ciclo di chemio i potentissimi antitumorali orgoglio della scienza moderna potrebbero davvero far cilecca.

Per quanto assurda sia questa storia dell’omeopatia, quindi, potrebbe avere un campo di utilità. E nella lotta infinita di scienza vs noscienza, medico vs zia Carla, sì vs no, probabilmente cercare un compromesso potrebbe portare ad un esito più produttivo, meno dannoso e decisamente più sereno. Questo però richiede apertura: dello scienziato verso i dubbi e le necessità del paziente e del paziente verso l’autorità e la conoscenza dello scienziato.

E qui c’è molto da lavorare da entrambe le parti.

 

 

In preparazione

È così, quando si comincia una cosa nuova come la botanica farmaceutica prima di poter arrivare al succo della questione va attraversato (e capito) un sentiero piuttosto difficile e non sempre amico: la chimica

Ora, non partirò di certo dal mesozoico (nucleo, elettroni e protoni non verranno nominati), bensì la mia intenzione è quella di creare dei trafiletti in grado di riassumere e descrivere in linea generale e chiara le classi di composti che principalmente interessano il campo vegetale e farmaceutico. Questi verranno inseriti negli articoli di maggior interesse per poter chiarire e (questo per me) dare per assodati certi concetti base che sarebbe troppo pesante riproporre in toto nel mezzo di un articolo.